La nostra penisola possiede la più grande varietà di vitigni autoctoni del pianeta.
Ma che cosa significa autoctono?
Questa è la definizione che ne da il Vocabolario della Lingua italiana Treccani: “In biologia è riferito a specie animali (e, alle volte, vegetali), in contrapposizione alle specie alloctone, introdotte cioè in una determinata zona da altri areali”.
Le specie alloctone, i cosiddetti vitigni “internazionali” come lo Chardonnay, i Cabernet, il Pinot Noir, etc., hanno avuto i loro natali in zone ben determinate del globo, ma poco a poco, grazie alla loro adattabilità, hanno popolato il panorama viticolo mondiale, dando vita a grandissimi vini anche al di fuori delle loro zone d’origine. I vitigni autoctoni invece hanno la peculiarità di esprimersi quasi unicamente nelle zone storiche di coltivazione.
In Italia abbiamo ben 350 varietà autoctone iscritte all’albo, ed ogni anno le ricerche ne svelano di nuove, e le più importanti denominazione di origine italiane sono composte proprio da questi vitigni. Un esempio lampante potrebbe essere rappresentato dal Nebbiolo, vitigno del Nord Italia, le cui origini sono contese tra Langa e Valtellina (più accreditata la seconda ipotesi). Questo vitigno, che prospera esclusivamente in Piemonte, Alta Valtellina e nelle zone di confine tra Piemonte e Valle d’Aosta, ci regala ben 6 DOCG, e 6 tra i più grandi vini italiani e del mondo: Barolo, Barbaresco, Gattinara, Ghemme, Valtellina Superiore, Sfursat di Valtellina.
Ovviamente vi sono delle differenze tra le varie tipologie, ma in tutti questi vini è il vitigno ad esprimere chiaramente le sue caratteristiche intrinseche oltre che il terroir.
Tipicità del vitigno e legame con la terra rappresentano il filo conduttore del successo dei vitigni autoctoni, ma anche la tipologia di vinificazione gioca il suo ruolo.
A volte la “caccia al punteggio” spinge alcuni produttori ad applicare tecniche che snaturano le caratteristiche dei vitigni, “internazionalizzando” così vini prodotti da uve autoctone. Questi vini da un lato penalizzano il discorso di legame con la tradizione ed il territorio, ma dall’altro fanno conoscere al mercato vitigni che altrimenti non avrebbero visibilità.
Un altro grande contributo allo sviluppo ed alla protezione dei vitigni autoctoni è sicuramente l’utilizzo di nuove tecnologie in cantina. La possibilità di controllare le temperature costantemente, la diminuzione dell’utilizzo di solforosa, fermentazioni pellicolari e tante altre operazioni che mi par lecito omettere, danno la possibilità ai vignaioli di preservare nel prodotto finale la tipicità del frutto e del territorio. Mi permetto un esempio che credo sia molto loquace: il Carricante dell’Etna, vitigno bianco autoctono che cresce in Sicilia sulle pendici del grande vulcano, dona attualmente un vino di particolare finezza, sapidità e longevità, promossa da un nerbo acido importante donato dall’altitudine e dal terreno. Fino a qualche anno fa le tecniche di vinificazione obsolete e le altissime temperature dell’Isola facevano sì che questo vitigno donasse un prodotto spesso stanco e poco fine, non permettendogli di conquistare gli appassionati di tutta Italia.
Il percorso intrapreso dall’enologia italiana sembra favorire la preservazione di questo nostro patrimonio ampelografico, sarà compito dei canali di distribuzione, della critica e dei consumatori far sì che esso vada a buon fine.
Andrea Livio